Esiste una profonda differenza tra i due approcci. La scienza del benessere aiuta le persone a dare un senso e un significato a tutte le attività della vita quotidiana, inserendole sempre in un’ottica olistica, filosofica e spirituale; la psicologia, invece, studia i processi mentali, e in particolare quelli che portano malessere ed emozioni negative per tenerli sotto controllo, e quelli che producono benessere per svilupparli. Il suo campo di azione è pur sempre quello clinico, più che umanistico e sociale.
In altri termini, lo psicologo analizza i processi mentali della persona per risolvere problemi contingenti. Il counselor, invece, si occupa di una persona così come pensa e vive nel suo ambiente, allo scopo di dare un significato più ampio a tale collocazione. Aiutandola, pertanto, ad essere consapevole della sua partecipazione a un processo infinito che riguarda il rapporto con se stessi, con gli altri, con l’ambiente di vita e con ciò che non conosciamo. Lo psicologo aiuta la persona a gestire meglio la sua vita, limitandosi a valutarne gli aspetti perlopiù immediati e a breve termine, materiali, pratici (la relazione affettiva, le relazioni sociali, ecc.).
Il counselor colloca sempre la persona all’interno di un sistema di significati spirituale, più elevato e più complesso, nel quale il problema o il progetto di vita della persona non è gestito come fine a se stesso, ossia per le sue conseguenze sulla vita sua e di chi gli sta intorno, ma in una prospettiva più vasta, transpersonale. Concetti filosofici come il dolore, la paura, la solitudine sono stati sviscerati in tutti i modi possibili da sempre, mentre quello di autorealizzazione, di fiducia nelle risorse umane, di cooperazione, solidarietà, autostima ed empatia, per citarne alcuni tra quelli positivi, sono nati praticamente solo grazie all’analisi psicosociologica del comportamento umano nello scorso secolo.
Ciò che è pericoloso, di qualsiasi intervento terapeutico posto in essere da medici e psicoterapeuti, quando essi vogliono agire sui comportamenti umani, è il fatto di concepire anche le relazioni umane come fonte di malattie, disturbi, infelicità, problemi di ogni tipo. Ossia di partire dal presupposto di combattere il male agendo su chi tale male ha subito, anziché ricercare il bene modificando i meccanismi che favoriscono il male. Le persone, in questo tipo di interventi clinici, non sono considerate come persone, ma come casi clinici, mine vaganti da tenere sotto controllo perché pericolose per sé e per gli altri, potenziali disturbatori della pace sociale. Inutile presentare questo tipo di interventi come un aiuto, una forma moderna di assistenza a persone in difficoltà: queste persone si sentiranno, comunque, diverse dagli altri, compatite e comprese nella loro devianza, giudicate incapaci di gestire la propria vita, l’educazione dei figli o, per i figli, il proprio comportamento.
Non c’è, in questo approccio sanitario e clinico, l’inquadramento del problema all’interno di una dimensione sociale e culturale più vasta, nella quale i problemi si affrontano a livello di sovra-sistema, ossia di cambiamento delle regole della società, piuttosto che come cambiamento forzato di atteggiamenti e comportamenti individuali. Quindi, il counseling dovrebbe aiutare le persone a dare un senso alla loro vita in base a ciò che è effettivamente la loro vita, con tutti i suoi problemi, limiti e bisogni, anziché cercare di omologare a regole prestabilite tutti quelli che deviano dalla norma. Il servizio di consulenza proposto si rivolge solo a fornire strumenti cognitivi e pratici per mettere il cliente in condizione di migliorare autonomamente la qualità della sua vita.