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Il primo a pronunciare il temine counseling fu, nel 1908, un professore americano di nome Frank Parsons. Con questo termine intendeva riferirsi a quell’attività rivolta a problemi sociali o psicologici. Parsons voleva rappresentare un modello di comunicazione fra due persone, la prima con il problema, la seconda in grado di darle un aiuto.

Questo concetto, ancora rozzo e poco sviluppato, venne riformulato da Carl Rogers e Rollo May, due fra i più influenti psicologi americani dello scorso secolo. Entrambi, grazie ai loro studi, diedero un contributo essenziale alla definizione del counseling, portando questa pratica ad andare oltre i modelli della più nota psicoterapia e delle psicanalisi classiche. Rogers creò la terapia centrata sul cliente o terapia non direttiva. Da questa si ispireranno l’analisi transazionale, la Gestalt e la relazione d’aiuto di Carkhuff, mentre Gerad Egan definì la struttura dentro cui il counselor potesse lavorare con il cliente in modo coerente e sistematico.

L’etimologia del termine relazione è il verbo latino refero-refert-relatum-referre che è traducibile in: riferire, restituire, riportare.
Sono tutti verbi che sottintendono un rapporto tra due persone che si realizza attraverso qualcosa che li vincola.
Affinché ciò accada è necessario che ci sia un’interazione tra i soggetti coinvolti. Ecco perché il concetto di relazione è associato a quello di rapporto, interazione.

Nel 1946 negli USA nasce la Division of Counseling and Guidance dell’American Psychological Association, (APA), che nel 1951 diventerà Division of Counseling Psychology. In quasi quarant’anni tale divisione definisce cos’è e a cosa serve il counseling. Nel 1951 si costituisce l’American Personnel and Guidance Association, che l’anno dopo diventa American Association of Counseling and Development.
A partire dal 1963 si assiste lentamente al passaggio da un modello centrato sulla malattia a uno orientato alla salute dell’individuo, conducendo negli anni Settanta allo sviluppo della cosiddetta “psicologia del benessere”, fondata su una concezione evolutiva e sostanzialmente positiva dell’essere umano, con l’intento di ottimizzare la qualità della vita e di ampliare le abilità della società in relazione alla salute.
È solo alla fine degli anni ’50 comunque che il counselor come professione arriva in Europa. Il counseling all’epoca viene utilizzato principalmente all’interno di ambulatori e consultori, anche se, già fine dagli anni Venti e Trenta, se ne trovavano esempi nel sistema della pubblica istruzione e del volontariato. Negli anni Settanta nascono le prime associazioni per la gestione della professione: nel 1971 viene istituito a Londra lo Standing Council for the Advancement of Counseling (SCAC), che riunisce organizzazioni di volontariato, enti statali e organizzazioni professionali in una sorta di forum per la condivisione di informazioni e contatti.
Nel giro di pochi anni viene pubblicato un primo elenco di servizi locali e documenti con le norme etiche sul counseling e nel 1976 lo SCAC si trasforma in British Association for Counseling (BAC), introducendo criteri di formazione e accreditamento per rendere il counseling sempre più professionale. Nel 2000 la BAC è diventata BACP (British Association for Counseling and Psychotherapy). Nel 1994 nasce la European Association for Counseling (AEC), con l’intento di favorire un ulteriore sviluppo del counseling in Europa.


In Italia l’avvento del counseling lo si ha con i consultori cattolici e municipali soprattutto come aiuto alla famiglia. Nell’accezione moderna i primi centri di counseling compaiono negli atenei italiani negli anni ’80 per gli studenti che si trovano ad affrontare un momento di difficoltà.
L’Assemblea Nazionale FAIP COUNSELING il 18 aprile 2013 ha definito il counseling come “una professione in grado di favorire lo sviluppo delle potenzialità, qualità e risorse di individui, gruppi e organizzazioni.”.
Si definisce il counseling come un processo interattivo tra uno (o più) counselor e uno (o più) clienti – individui, famiglie, gruppi o istituzioni – che affronta in una modalità olistica temi sociali, culturali, economici e/o emozionali. Il counseling può occuparsi di affrontare e risolvere problemi specifici, favorire un processo decisionale, aiutare a superare una crisi, migliorare i rapporti con gli altri, agevolare lo sviluppo, promuovere e accrescere la conoscenza e la consapevolezza di sé e permettere di elaborare emozioni, pensieri, percezioni, oltre che conflitti interni ed esterni. L’obiettivo globale è quello di offrire ai clienti l’opportunità di lavorare, con modalità da loro stessi definite, per condurre una vita più soddisfacente e ricca di risorse, sia come individui sia come membri della società più vasta.
La definizione di Counseling secondo la British Association for Counselling è la seguente: “Il counseling psicologico è un uso della relazione abile e strutturato che sviluppa l’autoconsapevolezza, l’accettazione delle emozioni, la crescita e le risorse personali. L’obiettivo principale è vivere in modo pieno e soddisfacente.”
In linea generale il counseling può essere definito come un atteggiamento, una forma professionale che serve ad indurre a capire come tirare fuori il meglio di sé, considerandosi nella norma anche quando si è in difficoltà.

A volte si tende a tradurre il termine counselor, cioè colui che aiuta, come consulente. Questo non mi piace molto perché il termine consulente riporta alla mente una persona esperta che deve ‘insegnare’ qualcosa ad altri. Ma nel counseling non è affatto così. Per non parlare dell’altra traduzione che sento: consigliere. Anche qui il counselor non deve dare nessun consiglio, anzi.
Il counseling è di fatto l’incontro tra due persone, di cui una si trova in condizioni di sofferenza- conflitto-disabilità-confusione (down) rispetto ad una determinata problematica, ed un’altra dotata invece di capacità-competenze-abilità (up) necessarie a risolvere tale situazione. L’accettazione e il non giudizio rappresentano le due condizioni necessarie che sono alla base di una relazione di aiuto e di cambiamento.
Ogni relazione di aiuto deve essere fondata sul rapporto di fiducia. Tale principio produce una relazione costruttiva ed efficace.

Nell’odierna metodologia di servizio sociale la relazione di aiuto è intesa come il mezzo attraverso cui si dipana il processo che favorisce lo sviluppo della persona e la soluzione dei suoi problemi.
La relazione non può intendersi esclusivamente come legame, ma è necessario interpretarla come processo. L’instaurarsi di un rapporto tra operatore e utente è il presupposto affinché si attivi in senso bidirezionale un continuo processo di interazione tra le parti.
La relazione di aiuto può avvenire tra il professionista di aiuto (assistente sociale, psicologo, educatore, infermiere, ecc.) e colui che trovandosi in una situazione di difficoltà chiede di essere aiutato. Con il termine aiuto, in base alla definizione suggeritaci dal dizionario Treccani intendiamo «l’ opera, materiale o morale, con cui s’interviene a levare un’altra persona (o anche un gruppo di persone, una famiglia, una popolazione, una nazione) da una difficoltà, da uno stato di disagio economico, da una situazione penosa o pericolosa (o, in senso più lieve e trattandosi di persona singola, ad alleviarle la fatica, lo sforzo.
Nelle professioni di aiuto, l’aiutare deve intendersi come una serie di azioni, comportamenti, condotte che hanno come obiettivo finale la trasformazione, il mutamento e lo sviluppo di una persona.

L’individuo è l’attore ed il promotore del cambiamento. È lui che, opportunamente direzionato ed orientato, interviene direttamente nella soluzione delle proprie difficoltà.
Tale processo è possibile all’interno di una relazione interpersonale efficace.
In una relazione di aiuto dunque, il professionista non deve dire all’utente cosa fare o sostituirsi ad esso, ma supportarlo nel comprendere il suo disagio. Il professionista deve far emergere gli strumenti dell’utente, così facendo quest’ultimo scoprirà le proprie risorse e riuscirà a prendere da solo le proprie decisioni.
Sarà autonomo e responsabile nell’effettuare le sue scelte. L’operatore metterà dunque a disposizione la propria esperienza e la propria formazione. Eventualmente deciderà di coinvolgere la rete familiare dell’individuo, in quanto qualità e risorsa con cui costruire un progetto di aiuto.
Tutto ciò verrà svolto in una logica di bilanciamento tra le parti. L’operatore sarà accogliente, farà emergere gli strumenti dell’assistito, le sue potenzialità, le sue risorse. Insieme si definirà un percorso di aiuto con la persona.
La relazione che si stabilirà sarà frutto di una responsabilità condivisa. Sarebbe opportuno che l’intervento di aiuto si dovrebbe sviluppare in tre momenti distinti ma legati tra loro:

1) L’esame delle capacità, competenze ed abilità emotivo-affettive, sociali, comportamentali, cognitive dell’utente utili alla soluzione dei suoi problemi.

2) La presa di coscienza da parte dell’utente e rinforzo delle proprie capacità, analisi del problema e sua organizzazione.

3) L’attivazione di un processo di crescita e cambiamento dell’individuo che prende autonomamente le sue decisioni e fa le sue scelte giungendo ad una personale soluzione delle sue difficoltà.



Fonte: UNIPSI 2021


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