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Poco tempo fa, durante una sessione di counseling, un signore di mezza età mi confidò di essere furioso con la sua ex-moglie dopo il divorzio. “Quella str*** della mia ex”, disse arrabbiato, “Mi ha fatto le corna con un suo collega”, continuò, “Maledetta put****, dopo tutto quello che ho fatto per lei”. Continuò per una buona mezzora a raccontarmi irato una lunga sequenza di accuse. Alla fine, iniziai ad indagare e gli chiesi subito quanto tempo fa si divorziarono. Mi rispose “Venticinque anni fa”.

Molto spesso noi siamo bravissimi ad aumentare la sofferenza da soli (e gratuitamente), rimuginando sulle ferite e ingigantendo man mano le ingiustizie e i ricordi dolorosi. Ma perché indugiamo in questo tipo di pensieri? Io credo almeno per due ‘buoni’ motivi. Il primo è che riportando alla mente gli errori o gli avvenimenti spiacevoli, in qualche modo ci illudiamo di poterli cambiare. Il secondo motivo per cui rivanghiamo le ferite del passato è per suscitare, più o meno consapevolmente, l’attenzione e la compassione degli altri. Ma questa è una misera ricompensa per l’infelicità che continuiamo a portare dentro.

Spesso gli eventi spiacevoli che ci capitano durante la vita hanno poco a che fare con la nostra volontà e non possiamo farci molto a riguardo. Ma è anche vero che tanta sofferenza è autoindotta e assolutamente non necessaria. Sono molti i modi in cui aumentiamo col nostro atteggiamento le pene che proviamo. Quando, ad esempio, nutriamo rabbia oppure odio per una persona, questo sentimento sicuramente si farà più intenso se gli diamo spazio dentro di noi. Nel caso contrario, cioè ignorandolo, si attenuerà naturalmente. Fortunatamente il meccanismo funziona anche per le emozioni positive. Se, ad esempio, ci concentriamo sull’amore e la gratitudine verso una persona, stabiliremo un legame con lei sempre più forte. Spesso accresciamo il dolore con la nostra ipersensibilità, reagendo a dismisura a fatti di lieve entità e prendendo tutto troppo sul personale. Quante volte anche a te ti sarà capitato di esagerare l’importanza di piccole cose, gonfiandole in maniera esagerata? E magari, invece, trascuriamo le cose davvero importanti a cui diamo poca rilevanza. A mio avviso tutto dipenda dal nostro atteggiamento a ciò che ci accade intorno.

La storia narra di due monaci buddisti che devono guadare un piccolo fiume. Mentre iniziano la traversata arriva una donna che, anche lei, deve arrivare all’altra sponda, ma confessa di aver paura dell’acqua. Ad ascoltare quelle parole, uno dei due monaci si offre di portarla in braccio. Una volta attraversato il fiume i due monaci si rimettono in cammino in silenzio. Dopo molte ore, l’altro monaco interrompe il silenzio per sentenziare al suo compagno che è stato irrispettoso della loro religione prendere e portare una donna in braccio. L’altro si fermò, gli sorrise e disse che ora era lui che la portava ancora.

Una sera andai a cena con un mio amico in un bel ristorante. Il servizio però era molto lento e si notò da quando ci sedemmo al tavolo. Non passo molto tempo che il mio amico iniziò a lamentarsi “Ma dove è finito quel cameriere?”, continuò, “È proprio una vergogna, secondo me lo fanno apposta a ignorarci!”. Anche se non avevamo impegni pressanti, continuò a lamentarsi di tutto e a borbottare in continuazione. Alla fine della cena, il cameriere ci portò due dessert e disse “Questi ve li offre la casa. Ci scusiamo per il servizio lento di oggi, ma abbiamo poco personale. Uno dei cuochi ha avuto un lutto in famiglia e un cameriere ci ha avvisato con poco preavviso che non avrebbe lavorato per la febbre. Spero non ne abbiate risentito troppo”. Mentre l’uomo si allontanava, il mio amico aggiunse “Io comunque non ci metterò mai più piede qui”. Questo è un perfetto esempio di come tendiamo a personalizzare troppo le situazioni, sentendoci, a volte come se fossimo al centro dell’intero universo.

Jacques Lusseyran, autore e attivista politico francese, fece un’acuta osservazione. Cieco dall’età di otto anni, durante la seconda guerra mondiale aveva costituito un gruppo partigiano, ma fu catturato dai tedeschi e rinchiuso in un campo di concentramento. Quando in seguito raccontò la propria esperienza disse: “Allora capì che l’infelicità colpisce ciascuno di noi perché ci riteniamo al centro del mondo e perché siamo convinti di essere i soli sfortunati a soffrire in maniera intollerabile. L’infelicità è sempre sentirsi imprigionati nella propria pelle, nel proprio cervello”. Nella vita quotidiana di ciascuno di noi sorgono problemi e difficoltà che non dipendono da noi, fa parte del gioco. Quello che però dipende da noi è l’atteggiamento che scegliamo nell’affrontarle. Se li affrontiamo in maniera diretta e concentriamo le forze nel trovare una soluzione, possono diventare delle sfide e, a volte, delle opportunità. Ma se invece aggiungiamo alla difficoltà anche il concetto di “ingiustizia”, questo può alimentare notevolmente l’irrequietezza e la sofferenza mentale.



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