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«È successa una terribile disgrazia, Everett, la mamma è stata uccisa. C’era sangue sul tappeto, sui muri, dappertutto…» La mattina di Capodanno del 1996, Everett Worthington, autore di un celebre libro sul perdono, ricevette questa terribile telefonata da suo fratello. Quando il dottor Worthington giunse a Knoxville, dove l’anziana madre risiedeva, apprese che era stata picchiata a morte con una spranga di ferro e una mazza da baseball; i suoi assassini l’avevano stuprata con una bottiglia, e avevano vandalizzato la casa. Conoscere i dettagli della lotta intrapresa con successo da Worthington per riuscire a perdonare i colpevoli di un crimine tanto efferato, sarebbe prezioso anche se Worthington fosse una persona qualunque. Trattandosi proprio di un eminente studioso del perdono, assume l’autorità di un insegnamento morale che farà riflettere tutti coloro che vorrebbero perdonare ma non ci riescono. Worthington descrive un processo del perdono (certo non facile né era rapido) in cinque fasi, che chiama REACH.

«R» sta per rievocare il torto subito, in questo caso addirittura una tragedia, nel modo più oggettivo possibile: non pensate all’altra persona come al ‘Male’. Cercate di non indugiare in pensieri di autocommiserazione. Mentre provate a visualizzare l’evento accaduto, fate respiri profondi, lenti, che contribuiscano a calmarvi. Worthington evocò questo come possibile scenario da visualizzare: «Cercai di immaginare come dovevano essersi sentiti i due ragazzi mentre si preparavano al buio. […] Fermi nel vicolo, erano tesi, agitati».  «Questa va bene», avrà detto uno dei due. Qui sono tutti fuori: è buio pesto.» «Nel vialetto la macchina non c’è», avrà detto l’altro. «Questi sono senz’altro a un veglione». Non potevano sapere che nostra madre non aveva la patente, e quindi nemmeno l’auto. […] «Oh no», avrà pensato uno, «Ecco: m’ha visto in faccia. Questo non doveva succedere […]. Da dove esce questa vecchia?, è terribile, questa è capace che mi riconosce. Mi sbatteranno dentro. Questa dannata vecchia mi rovinerà la vita».

«E» sta per empatia. Cercate di capire, mettendovi nei panni del colpevole, perché quella persona vi fa, o vi ha fatto, del male. È difficilissimo, ma provate a inventare una storia plausibile che il colpevole racconterebbe se dovesse spiegare il suo gesto. Per aiutarvi ricordate che:

  • Quando sentono che è in gioco la loro sopravvivenza, molti non esitano a far del male a chiunque, per  quanto inerme e innocente.
  • Chi attacca un proprio simile è solitamente in uno stato di terrore, ansia e disperazione.
  • La situazione in cui la persona viene a trovarsi, e non la sua normale personalità, può indurla a fare del male.
  • Le persone nello stato di cui sopra non pensano, mentre fanno ciò che fanno; sono in preda a un raptus, non sono in sé.

«A» sta per concedere il dono altruistico del perdono, un altro passo molto difficile, ma essenziale. Ripensate a un episodio in cui voi eravate in colpa, vi sentivate colpevoli, e siete stati perdonati. È stato un dono che vi è stato fatto da un’altra persona quando e perché ne avevate bisogno, e gliene siete stati grati.

Come dice il proverbio:

Se volete esser felici…

…un’ora, fatevi un pisolino.

… un giorno, andatevene a pesca.

…un mese, sposatevi.

…un anno, godetevi un’eredità.

… una vita intera, aiutate qualcuno.

Ditevi che potete ergervi al di sopra del male e della vendetta, che perdonando attivate questa straordinaria possibilità: voi potete essere più forti del male, potete essere liberi dal male. Sappiate tuttavia che, se concedete il dono del perdono continuando a covare dentro di voi astio e rancore, questo perdono non sarà efficace per voi: non vi libererà.

«C» sta per confermare pubblicamente il proprio perdono. Nei gruppi di Worthington, i pazienti scrivono un ‘certificato di perdono’, oppure scrivono una lettera di perdono a chi ha fatto loro del male o semplicemente nel proprio diario; altre volte raccontano a un amico fidato di questo loro perdono. Questi sono tutti ‘contratti di perdono’ che portano all’ultimo passo.

«H» sta per saper tener fede (to hold) al proprio perdono. Questo è un altro passo difficile, perché i ricordi del torto subito torneranno senz’altro a ripresentarsi. Perdonare non è cancellare; è piuttosto cambiare gli ‘slogan’ mnemonici che un ricordo porta con sé, senza indugiare sui ricordi e alimentando propositi di vendetta. Non crogiolatevi in essi, non ruminate. Ricordatevi di aver ormai perdonato, e, per concretizzare questa consapevolezza, rileggete i documenti che avevate scritto.

Tutto ciò potrà suonarvi come una predica per anime belle e sembrarvi sciropposo sentimentalismo. Ciò che lo trasforma in scienza è che vi sono almeno otto studi documentati che misurano le conseguenze di processi come il REACH di Worthington. Nel più ampio e accurato tra quelli sinora pubblicati, un gruppo di ricercatori dell’Università di Stanford, guidati da Carl Thoresen, ha assegnato a caso 259 adulti, rispettivamente a un workshop sul perdono di nove ore e a un gruppo di controllo che si limitava a valutare i torti subìti. Il risultato per il gruppo che aveva seguito il workshop sul perdono è stato: minor collera, minor stress, maggiore ottimismo, miglior stato di salute soggettiva e maggior disposizione al perdono.

Personalmente ho molto rispetto per chi, come Worthington, riesce a offrire il perdono, tuttavia non è sempre così facile e non credo sia un diritto riceverlo da parte del colpevole. È più un atto di estrema generosità e che si offre solo quando si davvero pronti a farlo. Non ha nessun senso, anzi lo trovo dannoso, perdonare a comando, senza aver maturato una vera consapevolezza, che può richiedere anche molto tempo. Ciò equivarrebbe a nascondere momentaneamente la polvere sotto il tappeto. Infine, credo che il perdono lo si dà come atto di liberazione, una sorta di ‘spezzare le catene’ fra la persona che ha subito il torto e il colpevole ed è, soprattutto in questo senso, un grande atto d’amore verso se stessi.



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